Capitolo 4 - L'abitante della caverna


Dietro le sbarre in acciaio stava un uomo alto, magro, con lunghi capelli biondi che ricadevano sulle spalle e due occhi verdi come il mare fissi sull’uomo e il bambino. Le orecchie a punta ai lati della testa fecero capire a Korgath che ciò che aveva dinanzi a sé non era un essere umano.

L’elfo era vestito di stracci vecchi, logorati dal tempo e dall’umidità. La salsedine aveva corroso il colore originario, ormai diventato un bianco sporco che bene si intonava con le pareti della cella. Non indossava scarpe e i suoi piedi erano martoriati dalle ferite provocate dalle pietre affilate che ricoprivano il pavimento. Doveva trovarsi in quella cella da molto tempo.

Korgath lo squadrò dalla testa ai piedi per parecchi secondi. Non aveva mai visto un elfo in gabbia e mai avrebbe creduto di vederlo. C'era un che di fiero nel suo aspetto, nel suo modo di camminare e di stare dritto in piedi.

«Finalmente siete arrivati» esordì l’elfo esprimendosi perfettamente nella lingua degli uomini. «Il sole è calato e io ho bisogno di riposare.»

Lo stupore era ancora dipinto sul viso di Korgath. «Era lui che mi dovevi far vedere?» chiese al bambino.

«Si» rispose Maki tutto contento. Il fragore di un tuono rimbombò tra le mura della caverna e coprì parzialmente la sua voce.

«Ho mandato Maki affinché ti trovasse» disse l'elfo protendendo una mano tra le sbarre e accarezzando la testa del bambino. «Ho bisogno del tuo aiuto.»

«Non ho mai saputo di nessuno che fosse riuscito a intrappolare un elfo» disse Korgath mentre scrutava ancora una volta nell’oscurità della cella notando solo in quel momento un giaciglio di alghe secche.

«Nessun uomo normale, infatti, c’è mai riuscito» rispose l'elfo.

Poi raddrizzò la schiena e allargò le spalle, assumendo un portamento quasi regale.  «Il mio nome è Keradas, ultimo discendente della stirpe di Gondar e ultimo re vivente del regno degli elfi del sud.»

Korgath corrugò la fronte: «Ma a sud non ci sono elfi, solo le Terre Dimenticate.»

Keradas abbassò lo sguardo e sospirò tristemente. «Adesso voi uomini chiamate quei luoghi in questo modo, ma ci fu un tempo in cui io e il mio popolo abitavamo quelle terre e vivevamo in pace e in prosperità. Il mio regno era bellissimo, vasto fino a limiti che i vostri occhi nemmeno conoscono. Attorno alla città di Turiok si aprivano immense distese di campi verdi e fertili, che si affacciavano sulle rive del fiume Athol-ei, il più grande e impetuoso della regione. Nel centro della città stava il mio bellissimo palazzo d’oro, splendente come le stelle e allo stesso tempo robusto e solido come le montagne. Sotto il mio regno, gli elfi non dovettero mai temere la fame o la guerra. Ma venne il giorno in cui il destino del mio trono, del mio potere e del mio popolo cambiò.»

La luce di un lampo guizzò attraverso le caverne e li raggiunse. Il tuono successivo rimbombò tra le pareti di roccia come un ruggito.

Keradas aveva ora un'espressione malinconica. «Un giorno d'estate venne presso di me un mago umano. Il suo nome era Attichus. Mi chiese di insegnargli la magia degli Antichi Elfi di Gondar, la più elevata posseduta dal mio popolo, un insieme di incantesimi che permettono di entrare in comunione completa con la Natura, di coglierne i misteri più meravigliosi e di poterle chiedere favori e privilegi. Solo i membri della famiglia reale conoscono le formule esatte.»

Abbassò lo sguardo divenuto ancora più triste. «Ma il mago non desiderava questo. Voleva la magia di Gondar per controllare la Natura, non per capirla. Voleva sottometterla ai suoi desideri. Io feci ciò che era giusto: gliela negai, cacciandolo dalla mia terra. Purtroppo lui tornò.»

Keradas tirò un sospiro profondo, come se scavare nella memoria, ancora dopo lunghi anni gli provocasse un immenso dolore. «E non da solo. Con un esercito di orchi capeggiati da un gigante annientò il mio popolo. Noi elfi non siamo esseri bellicosi e non siamo abituati alla lotta. Gli orchi, invece, esistono solo per distruggere. Il gigante, poi! Un mostro orrendo e raccapricciante che provava una specie di primitivo piacere nel devastare le nostre case e i nostri campi. Era uno degli ultimi della sua razza, catturato dai miei antenati e imprigionato in una grotta segreta affinché non recasse più danno. I secoli trascorsi in solitudine devono avergli fatto desiderare ardentemente la nostra rovina. È per questo che quel diabolico Attichus trovò in lui un potente alleato.»

Adesso Korgath poteva vedere chiaramente le lacrime negli occhi dell'elfo. «A nulla valsero le mie magie. Il mio popolo fu spazzato via in poche ore di assalto come una scritta sulla sabbia viene cancellata dalla risacca. Niente sopravvisse alla furia devastatrice degli orchi e alle magie scellerate di quell'avido mago. Attichus, invece di uccidermi, mi imprigionò in questa caverna. Disse che non mi avrebbe fatto uscire fino a quando non gli avessi rivelato i segreti della mia magia. Le sbarre che vedi sono protette da un incantesimo malvagio che neanche io riesco a spezzare, che mi imprigiona qui dentro e mi impedisce di trovare una via di fuga. La crudeltà di Attichus e la sua cupidigia lo hanno reso più potente di quanto mi sarei mai aspettato. Eppure, anche dentro questa prigione riesco a invocare gli spiriti della Natura. Il vento, il mare, la terra e la pioggia non hanno mai smesso di parlarmi e mi hanno raccontato le cronache agghiaccianti della disfatta del mio popolo. I pochi sopravvissuti fuggirono verso est, dove vivono attualmente in una terra che non è la loro. Il mio glorioso regno è diventato una roccaforte degli orchi guidati dal loro generale Troghart, l'essere peggiore di quella razza. Il fiume Athol-ei, sulle rive del quale i cantori componevano canzoni e poemi, è ora un torrente limaccioso e scuro sulle cui rive crescono solo sterpaglia e gramigna. I suoi ponti, mi dicono, sono abitati da troll ripugnanti. Il mio splendido palazzo è diventato la casa del gigante.»

L'elfo si asciugò gli occhi e sospirò sforzandosi di trovare una calma che, si vedeva chiaramente, gli risultava difficilissima da raggiungere.

«Solo io posso salvare quel che resta del mio popolo» proseguì. «Devo sfidare Attichus, sconfiggere il gigante e cacciare gli orchi dalla mia terra. Ma fino a quando sarò imprigionato qui non posso fare nulla. Esiste un solo modo per aprire la cella.»

Keradas indicò in basso e Korgath vide un cubo di roccia appoggiato al muro, in realtà una serratura, nascosta da ragnatele spesse e opache, con al centro un foro grande quanto il pugno di un uomo.

«La chiave è una pietra rara e magica avvolta nella fascia che il gigante porta alla fronte» spiegò Keradas. «Il gigante è in realtà cieco. Ha perso l'uso della vista combattendo contro un drago. La pietra magica gli conferisce però una vista più acuta di quella di un falco. Per questo è chiamata “l'Occhio del Gigante”. Fa da occhio e da serratura insieme. È stato Attichus a donargliela.»

«Mi dispiace per la tua storia» disse Korgath, che fino a quel momento aveva ascoltato con attenzione. «Ma da me che cosa vuoi?»

Keradas lo guardò dritto negli occhi. «Maki mi ha parlato molto di te e mi ha detto che tra gli uomini sei conosciuto come un abile ladro. Ho considerato varie persone esperte nell'arte del furto, ma alla fine ho scelto te. Vorrei che tu rubassi quella pietra per me.»

Korgath sussultò. «Cosa?»

«Dove la magia degli elfi non riesce, forse può l'abilità di un ladro esperto.»

«Qui non stiamo parlando di rubare qualche anello a donnicciole spaurite. Qui parliamo di un gigante nelle Terre Dimenticate. È ben altra cosa.»

«Hai perfettamente ragione, Korgath. So cosa ti sto chiedendo. Tuttavia, sei la mia sola speranza, la speranza di tutto il mio popolo.»

Korgath distolse lo sguardo, evidentemente innervosito dalla situazione. «Lo sai bene che chi è entrato nelle Terre Dimenticate non ne è mai uscito. Penso che questa piccola peste te l'abbia detto.»

«Sì.»

«Ci sono gli orchi. Mangiano gli uomini, lo sai.»

«Lo so.»

«E i troll. Non ci tengo a diventare lo schiavo di un troll.»

«Lo posso capire.»

«E il gigante? Dovrei sconfiggere un gigante per rubargli una pietra che porta sulla fronte? Mi dispiace, è troppo rischioso.»

«Aspetta prima di decidere. Non ti ho detto che dovrai sconfiggere il gigante. Quello lo farò io appena uscirò di qui. Tu dovrai soltanto rubargli la pietra. Al resto penserò io.»

«Ammesso che ci riesca, il che è molto improbabile, come pensi che possa tornare indietro per liberarti?»

«Nello stesso modo in cui andrai lì. Chiederò alla Terra di trasportarti ai confini delle Terre Dimenticate. Poi tornerai alla stessa maniera. Sarà la Terra a trasportarti.»

Korgath sospirò. Un tuono rumoreggiò lontano.

«Keradas, sai bene che cosa mi stai chiedendo. Io sono un ladro, non un eroe. Che cosa ci guadagnerei, in tutto questo?»

«La riconoscenza eterna del mio popolo e l'Occhio del Gigante. Una volta neutralizzato il suo potere, rimane comunque una gemma di grande valore. Diventeresti ricco e potresti così ritirarti dall'attività di ladro e dedicarti alla vita onesta.»

Korgath rifletté un momento. «Mi sembra che la posta in gioco sia troppo alta.»

Keradas strinse le sbarre e sembrò che trattenesse a stento delle emozioni fortissime.

«Korgath, io non ti posso obbligare. Voglio solo che tu sappia che il destino del mio popolo è nelle tue mani. Ho visto il mio regno e la mia gente venir spazzati via da un esercito di creature immonde guidato dalla cupidigia di un uomo. Non ti chiederei di fare questo per me se non fossi al limite della disperazione.»

A Korgath sembrò improvvisamente che il re elfico in piedi davanti a lui fosse in realtà un uomo distrutto dal dolore. Con quelle ultime parole aveva gettato via la sua regalità e questo, si percepiva chiaramente, gli era costato moltissimo.

Quegli occhi chiedevano non aiuto, ma pietà. Quello sguardo spento e sconfitto entrò nell’anima di Korgath come un fiume che si getta a cascata in un lago.

L'uomo abbassò gli occhi un'ultima volta e vide Maki che annuiva impercettibilmente. Infine sollevò lo sguardo verso Keradas. «D'accordo. Lo farò.»

L'elfo rimase per un attimo senza parole. Non si aspettava quella risposta, dopo la titubanza di prima.

«Dovrò riconsiderare le mie opinioni sugli umani» disse sorridendo.

«Che cosa devo fare, di preciso?»

«Devi entrare nel mio palazzo. Lo riconoscerai facilmente. È una torre posta sulla sommità di una collinetta. Alla base una volta c'erano delle case. Adesso temo ci siano solo macerie. Nella torre si trova il gigante. Devi aspettare che si addormenti, poi gli ruberai la pietra dalla fronte e chiederai alla Terra di riportarti qui. Hai capito?»

«Sì, ho capito.»

«Allora avvicinati.»

Keradas sporse le mani oltre le sbarre fino a poggiargliele sulle spalle.

«Non temere mai la Terra» disse l’elfo. «Ora le chiederò di trasportarti nelle Terre Dimenticate. Qualunque cosa succeda, non parlare e non muoverti fino a quando non te lo dirò io. Se tutto andrà bene, la Terra mi concederà questo favore.»

Abbassò la testa e cominciò a pronunciare delle parole in lingua Gondar, incomprensibili alle orecchie dei due umani. Entrambi avevano sentito straordinarie storie riguardanti i prodigi che gli elfi riuscivano a compiere con la loro magia e, sebbene Korgath fosse leggermente preoccupato dal fatto di non conoscere ciò che lo aspettava, tutti e due erano estremamente curiosi di vedere cosa sarebbe successo.

I minuti passavano interminabili. Ogni tanto Keradas si interrompeva, come se stesse ascoltando una voce impercettibile o lontanissima, senza mai togliere le mani dalle spalle di Korgath, poi riprendeva a parlare per poi fermarsi di nuovo.

Alla fine, senza alzare lo sguardo, disse in lingua umana: «La Terra mi ha concesso questo favore. Tra poco ti porterà nella terra del gigante. Conto su di te, Korgath, signore dei ladri, amico degli elfi.»

Dopo che l’elfo ebbe pronunciato queste parole, dalla roccia del pavimento della caverna uscì improvvisamente un rumore sordo, come se qualcosa stesse scavando velocemente dalle viscere della terra verso la superficie. Il rumore fece il giro della caverna come il ruggito di un terremoto, si fermò proprio sotto Korgath, aumentando pericolosamente di volume e facendo tremare le pareti. Korgath cominciò a spaventarsi e Maki si rannicchiò in un angolo tappandosi le orecchie.

La roccia si aprì proprio nel punto in cui l’uomo stava in piedi e dalla fenditura uscì un impetuoso fiume di terra scura e asciutta. Keradas ritirò le braccia e prima che Korgath capisse cosa stava accadendo, la terra lo avvolse completamente, facendolo sprofondare in un lampo giù per la fenditura.



Keradas rimase in silenzio, concentrato. Il fragore sotterraneo si allontanò verso sud a velocità sorprendente, fino a quando la distanza non lo rese impercettibile anche alle sue orecchie sensibili.

«Non lo sento più» disse. «Deve essere arrivato.»

Cominciò a recitare una preghiera in lingua elfica mentre Maki si mise a sedere accanto alla cella. Quando l'elfo ebbe finito, alzò gli occhi e disse in lingua umana: «Buona fortuna, Korgath.»

Detto questo si distese sul giaciglio di alghe secche e si addormentò col cuore colmo di speranza.

Il prossimo capitolo verrà pubblicato domenica prossima!

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